Il piacere di vivere il cinema in sala. Eros e thanatos sono i veri protagonisti del film Il Colibrì di Francesca Archibugi, tratto dal romanzo di Sandro Veronesi Premio strega 2020.
Amore non corrisposto, amore non dato, amore celato che ha come risvolto la morte, reale o dell’anima.
Una morte che prepotentemente aleggia nel film, come attesa e come leitmotiv finale.
Marco Carrera, uno splendido Pierfrancesco Favino, è un medico, il quale, nonostante la sua professione, non riesce a salvare né la figlia da un tragico destino, né la moglie da una follia dilagante, né tanto meno se stesso, decidendo di lasciarsi morire per non soffrire e non far soffrire i suoi cari.
Un matrimonio infelice, ricco di tradimenti reciproci e cose non dette, una figlia: Adele, misteriosa e fragile. Una famiglia d’origine impegnativa: genitori conflittuali, ma dipendenti l’uno dall’altra, una sorella suicida all’età di 24 anni, un fratello: Giacomo, con il quale intrattiene un rapporto problematico.
Marco: Il colibrì, perché un tempo piccolo e in seguito sempre proiettato su se stesso, ricorda il personaggio dell’“inetto” di Italo Svevo: indeciso, passivo, sempre attento ai bisogni altrui e a “non far male a nessuno”: “tu sei come il colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere già dove sei”.
La vita gli scorre addosso e procede velocemente e, mentre lui è incapace di trovare il suo posto nel mondo, le situazioni mutano, i sentimenti svaniscono, i rapporti cambiano.
Tutto sembra cristallizzato nella sua esistenza, quasi il tempo fosse tenuto fuori dal suo mondo, ma è proprio il tempo la cartina di tornasole del film, tempo in cui tutto muta, tutto evolve, tempo che scandisce il significato della vita.
La passività di Marco lo condurrà a compiere un’esistenza deludente, a non vivere l’amore di gioventù che per tutta la vita rincorre.
Neanche l’affetto per la nipote riuscirà a salvarlo dal desiderio di allontanamento dai sentimenti, di fuga verso la morte.
Il film pecca di un insieme di rapporti troppo stereotipati, personaggi cristallizzati, situazioni costruite a tavolino, sentimenti irreali e su tutto questo mondo scorre quasi un sentimento di biasimo.
Come se la fluidità del caso, della vita fossero compressi, sottovuoto e l’infinita frammentazione della linea temporale disturbasse lo spettatore, costringendolo ogni volta a fare un passo indietro per comprendere meglio una situazione poco fluida e personaggi quasi irreali.
Le magistrali interpretazione di Nanni Moretti, psichiatra che spende la propria vita per gli altri, e Laura Morante, madre algida e moglie nevrotica, non riescono a salvare il film che scorre un po’ a fatica e restituisce un’immagine della società cristallizzata, avvolta su stessa, al pari del modellino del trenino che il padre di Marco, famoso ingegnere, aziona nel film.
Tutto è come in un plastico, simile a quello costruito dall’ingegnere e più volte riproposto nel film, quasi a mostrare una società immobile, incapace di reagire in maniera “creativa” agli urti della vita.
Una società che come il Colibrì non vola alto, ma rimane prigioniera di sé.
Un film che non decolla, ripropone infinite storie, infinite situazioni destinate, già nel titolo, a rimanere immobili, prive di un grande volo.