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4 luglio 2022
rosella lisoni

E’ la percezione della mancanza, dell’assenza ad accompagnare la vita di Pier Paolo Pasolini.
Mancanza è il termine che lo caratterizza.
Sin dalla più tenera età patì la mancanza del padre.
L’ amore del quale, sebbene intenso, non riuscì a colmare la sete d’affetto del poeta. Patì poi la mancanza della sua presenza fisica, il padre, da militare, trascorreva lunghi periodi fuori casa. Successivamente patì la mancanza del suo insegnamento, di un modello da imitare, di una guida sicura.
Sempre più in preda al delirio, all’ira, il poeta fuggi lasciandolo alla sua disperazione. A nulla servì il riavvicinamento alla famiglia trasferita da tempo a Roma.
Patì in seguito la mancanza di Guido, l’amato fratello, ucciso in guerra dai partigiani titini. Una morte violenta, straziante, inattesa che segnò per sempre la famiglia Pasolini.
La mancanza del suo amato Friuli, del suo Eden, del suo Paradiso terrestre fonte di grande dolore, ma anche tema ricorrente di molte delle sue liriche più belle.
A Roma il poeta patì la mancanza di dignità. Privo di un’ indipendenza economica visse per alcuni anni nell’ indigenza assieme all’amata madre.
Per tutta la vita patì la mancanza di serenità e pace.
Subì ben trentatré processi trascorrendo gli ultimi 15 anni di vita nelle aule di tribunale.
La mancanza di Cristo, la sua assenza lo spinse, lungo tutto il corso della sua vita, ad inseguire e ricercare il sentimento del sacro tanto da farne il filo che lega quasi tutta la sua produzione artistica.
Quasi che la vita del poeta proceda per sottrazione.
Ma l’assenza, la mancanza lo hanno spinto a colmare questo vuoto interiore con una intelligenza raffinatissima, con una sensibilità immensa, con una capacità comunicativa fuori dal comune, con uno sperimentalismo irrefrenabile che lo rese poeta, saggista, romanziere, critico cinematografico, giornalista, drammaturgo, regista, sceneggiatore, pittore.
L’eterna mancanza di qualcosa, di qualcuno lo arricchì di una “disperata vitalità”, di un immenso e insaziabile amore per la vita: “Amo la vita così ferocemente, così disperatamente, che non me ne può venire bene: dico i dati fisici della vita, il sole, l’erba, la giovinezza e io divoro, divoro, divoro, come andrà a finire non lo so”.
Negli anni 60 la letteratura si palesa al poeta come “l’arte dell’assenza” che lo consegnerà al cinema da lui definito “l’arte della presenza”, considerato “lingua scritta della realtà”, medium in grado di esprimere al meglio la sua arte e continuare l’opera di provocazione che mai in lui ebbe fine.
La sua forza provocatoria, il suo essere la voce contro si deve alla contraddizione eterna che porta in sé, ad essere una contraddizione vivente, un uomo attraversato da infinite contraddizioni: assenza, mancanza, vuoto e simultaneamente presenza, vita, vitalità.
La sua lotta contro il Potere trova le sue radici nell’eliminazione della contraddizione operata dal potere. Qualsiasi tipo di potere: ecclesiastico, politico, economico, tecnologico tende ad affermarsi negando ogni tipo di contraddizione, proponendosi come affidabile, sicuro, privo quindi di ogni minima contraddizione.
I poeti esistono per abitare le contraddizioni, per viverle e farle emergere. Pasolini ne fu la prova.
Anche Leopardi, sebbene non fosse un attivista politico, rappresentò un antidoto al Potere, una contraddizione insanabile nella vita dell’uomo del suo tempo, mentre il Potere dell’epoca ribadiva l’avanzare verso un periodo privo di contraddizioni, grazie alla scienza, alla filosofia in grado di appianare le contraddizioni della vita.
Pasolini esplicitò nella sua figura, nel suo corpo tale contraddizione, per questo risultò insopportabile.
Rappresentò la contraddizione e il Potere gli permise di esprimersi, il rimando va ai suoi Scritti Corsari, ai suoi articoli pubblicati sulla prima pagina del Corriere delle Sera.
Mentre i potenti del tempo sono muti Pasolini continua a parlare.
Negli anni 50 comprende che ci si avvia verso un grande cambiamento, l’Italia agricola sta mutando volto, nel famoso articolo “La scomparsa delle lucciole” tratto dalla raccolta poetica “Scritti Corsari” rende questo passaggio in modo estremamente poetico. Le lucciole scompaiono, in quanto il rapporto tra uomo e natura è mutato.
Andava scomparendo un mondo rurale millenario e la dimensione aperta alla trascendenza che gli uomini avevano allacciato con la natura.
In seguito, nel 1968, quasi una schiaffo in faccia all’intellighenzia del tempo, compone la famosa poesia “Il Pc ai giovani” dove, durante gli scontri a Valle Giulia, si schiera con i poliziotti e non con i rivoluzionari borghesi e “figli di papà”.
La rivoluzione di stampo borghese, venne organizzata da figli di borghesi ai quali fu delegato il compito di fingere che tutto potesse cambiare lasciando che tutto restasse come prima.
Debolezza culturale di un 68 che non ha prodotto autenticità, ma più burocrazia come Pasolini aveva già evidenziato, ribadendo “che fare del puritanesimo è impedirsi di fare l’azione rivoluzionaria vera”.
Pasolini, negli ultimi anni della sua vita, riconobbe il tradimento della realtà da parte degli intellettuali, il “tradimento dei chierici”, gli intellettuali si presero gioco del mondo, usando le parole libertarie per diffondere una forza omologante del mondo: “Il tecno fascismo”, l’omologazione al servizio di una visione tecnica della vita, l’idea che la vita sia un problema organizzativo da risolvere.
I veri chierici del futuro dirà Pasolini “saranno progressisti”.
Il pensiero apparentemente libertario e progressista, non è diverso antropologicamente dall’omologazione culturale di tipo tecnocratico e economico.
Pasolini nella poesia “La realtà” del 1964 afferma che la forza del profeta sta in una degradante diversità: sta parlando di sé.
Giovanni Testori alla morte di Pasolini afferma che la diversità di Pasolini è degradante perché è un urlo senza fine, una domanda senza fine per questo degrada, cade: “quando ci si alza dai tavoli delle cene perché gli amici non bastano più, quando non basta nemmeno la figura della madre… e si resta lì soli, prigionieri senza scampo dentro la notte che è negra, come il grembo da cui veniamo, come il nulla verso cui andiamo, comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperante di trovare un appoggio, un riscontro, di trovare un qualcuno, quel qualcuno che ci illuda, fosse pure per un solo momento, di poter distruggere ed annientare quella solitudine, di poter ricomporre, quell’unità lacerata e perduta”.
La diversità di Pasolini consiste nell’aver accettato e riposto la sua mancanza a tutti i livelli, senza affidarsi al potere, all’economia, ai soldi, al sesso, in quanto non sufficienti a colmare quel vuoto interiore.
Pasolini, durante le riprese del film il “Vangelo secondo Matteo” non è in grado di trovare il volto dell’attore che interpreterà il Cristo e scriverà “Io sono bloccato in un modo che solo la grazia può sciogliere”.
Mancanza che diviene degradante come magnificamente esprime nella poesia “Alba meridionale” tratta dalla raccolta di poesie “Poesia in forma di rosa”. “Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto in ogni mio intuire. Ed è volgare questo non essere completo, è volgare, mai fu così volgare come in quest’ansia, in questo non avere Cristo – una faccia che sia strumento di un lavoro non del tutto perduto nel puro intuire in solitudine, amore con se stessi, senza altro interesse che l’amore, lo stile, quello che confonde i sole, il sole vero, il sole ferocemente antico – sui dorsi d’elefante nei castelli barbarici, sulle casupole del Medioriente – col sole della pellicola, pastoso, sgranato, biancore da macero e controtipato, controtipato, il sole sublime che memoria con altrettanta fisicità che nell’ora in cui è alto e va nel cielo verso interminabili tramonti di paesi miseri…”.
Percezione della mancanza, dunque, e assenza caratterizzano la produzione artistica pasoliniana e lo conducono verso una ricerca e sperimentazione infinita, verso una nuova forma artistica, che altro non è che una nuova forma di vita.

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