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8 marzo 2020
rosella lisoni
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La Viterbo di Fellini: I Vitelloni

L’amore di Federico Fellini per la Tuscia è un amore antico, romantico e profondo. Un amore alimentato da suoni, rumori, odori, atmosfere rarefatte, amore per un territorio in cui il tempo scorre  lento, sembra quasi essersi fermato, dove le memorie antiche affiorano avvolgendo la città di Viterbo di infinita dolcezza. Per il regista Viterbo rappresenta la provincia amata, la sua Rimini, dalla quale fugge ma che porta nel cuore. “Viterbo restituiva a un sapore d’infanzia addirittura la forza di Roma, che per me era stata solo città della giovinezza. Viterbo mi faceva capire Roma e me la riconsegnava filtrata già nella memoria”. Una provincia autentica dove i vecchi valori non vengono abbandonati e la semplicità si respira nelle strade, nei piccoli negozi, una città che evoca al regista ricordi di gioventù mai cancellati. Viterbo è anche la città borghese e aristocratica, dal passato che conta, la città del mistero, della notte, del buio. Non è un caso che le riprese del suo film di maggior successo ambientato a Viterbo,  I Vitelloni, siano prevalentemente notturne; il film viene girato a Viterbo di notte, dal tramonto all’alba, lungo Piazza delle Erbe, Porta Fiorentina, Via del Corso, Piazza della Rocca, quasi il regista volesse rendere, tramite la scrittura cinematografica, l’immagine del sogno, abbracciando le teorie psicanalitiche di Freud. Quasi la realtà vera fosse soltanto quella onirica, quella visionaria che conduce lontano, riuscendo a cogliere la natura segreta dell’uomo che la musica dei suoi film perfettamente ricalca.  “Faccio un film nella stessa maniera in cui vivo un sogno. Che è affascinante finché rimane misterioso e allusivo, ma che rischia di diventare insipido quando viene spiegato”. Nel 1953 Fellini approda a Viterbo, città nota al regista e scoperta durante le sue lunghe scorribande nella Tuscia. Non è un momento felice, alle spalle ha due insuccessi: Luci del varietà  (1951) e  Lo sceicco bianco  (1952), che non hanno riscosso il successo sperato. Il regista non demorde e, fedele alla sua natura ottimista, decide di mettere in cantiere un nuovo film. Insieme agli sceneggiatori Ennio Flaiano e Tullio Pinelli scrive la sceneggiatura de  I Vitelloni che lo pone in una posizione critica verso il neorealismo, sebbene ricalcandone alcuni aspetti formali. Con  I Vitelloni Fellini apre la strada al discorso autobiografico che in seguito esplorerà dettagliatamente e restituisce magnificamente l’immagine di una provincia stagnante, statica, luogo in cui tutto scorre  lentamente sempre nell’identico modo. Il racconto sviluppa attorno alle vicende di cinque amici romagnoli, stanchi della vita di provincia e refrattari verso ogni forma di responsabilità, senza lavoro, senza ideali, che si abbandonano all’ozio e al gioco vivendo sulle spalle dei genitori. Il regista ha saputo dar vita nel film alla caricatura del maschio italiano, ammiccante, gaudente, godereccio, in grado di provocare sentimenti contrastanti, che non sai se amare o odiare, in una parola un “vitellone”.
I tre film  Luci del varietà,  Lo sceicco bianco  e  I Vitelloni rappresentano quasi una “trilogia” della provincia, mondo ideale che si discosta e si contrappone alla disumanità e alla ferocia della città, provincia dove lo sguardo graffiante del regista rimanda a una dimensione ironica, quasi grottesca, condita di infinita nostalgia e un pizzico di sentimentalismo. Il mondo ricreato dal regista è quello di un autore unico nel suo genere che ha fatto della descrizione del realismo di provincia un’opera di poesia, che ha inserito l’elemento del grottesco all’interno della quotidianità, elemento descritto alla perfezione ne  I Vitelloni nell’episodio del gruppo di avanspettacolo, da lui adorato sin dall’infanzia. Nel descrivere la vita dei cinque “vitelloni”, che invecchiano senza diventare uomini, Fellini indugia sempre sullo scherzo, sulla battuta brillante, sull’umorismo dispettoso, indicando che la soluzione a ogni problema è sempre individuale e l’unica via di fuga è soltanto quella verso la città.  Il film ottenne il successo sperato: Nastro d’argento miglior regia, Nastro d’argento miglior attore non protagonista - Alberto Sordi - e traghettò Fellini verso nuovi orizzonti e nuove tematiche, quali il fallimento dell’esistenza, il calvario umano, la crisi di valori della società, la crisi esistenziale privata e verso un lirismo accentuato in grado di provocare l’attenta partecipazione dello spettatore. Questi tre film indicano un nuovo capitolo rispetto alla precedente attività di disegnatore satirico, caricaturista, giornalista, sceneggiatore, e traghetteranno il regista verso le opere della maturità che lo consacreranno come uno dei grandi maestri del cinema contemporaneo. Un cinema ricco di tecniche cinematografiche, con una macchina da presa estremamente dinamica che volge il suo sguardo altrove, senza mai fermarsi sugli attori e sulle loro vicende, quasi ammaliata dal divenire di una realtà che muta incessantemente. Un cinema che ha regalato a Fellini quattro premi Oscar come miglior film stranieri a  La strada,  Le notti di Cabiria,  81/2  e  Amarcord, e che lo ha consacrato come uno dei registi italiani più apprezzati nel mondo. 

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